E se faccio una rubrica la chiamerò “Meticcia”

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Meticcia è una rubrica, ma anche tanto altro.

Alcuni anni fa ho partecipato, come uditore, ad un’assemblea all’università degli studi di Salerno dal titolo “La Campania accoglie. Contro razzismo e fascismo”. L’iniziativa, organizzata da Gennaro Avallone (all’epoca professore di sociologia urbana) aveva l’obiettivo di sviscerare lo stato di salute del sistema d’accoglienza in Campania e innescare una disccussione collettiva sul fenomeno delle migrazioni a 360 gradi.

Era il 2017. L’anno dei decreti Minniti e Minniti – Orlando. Quelli del daspo urbano, della marginalizzazione dei poveri e degli stranieri, dal razzismo istituzionale che ha aperto la strada all’attuazione dei decreti sicurezza (I e II) firmati dal governo a maggioranza gialloverde (Lega e M5s) e non attenuati neanche lontanamente dai governi a maggioranza giallorossa (Partito Democratico e M5s).

Nell’aula Foa a scienze politiche si respirava aria di cambiamento e voglia di mettere al centro le problematiche reali derivanti dalla mala accoglienza, dal razzismo istituzionale, dalla mancanza di spazi di democrazia entro i quali esprimere dissenso e ribaltare un sistema fortemente ingiusto e gerarchico (aggiungerei coloniale fino al midollo in una società post coloniale).

Quel giorno tantissimi interventi si alternarono in un continuo scambio di idee e impressioni. Tra questi uno, in particolare, mi colpì: l’intervento di Dimitri Meka.

Dimitri nel 2017 era un ospite del progetto Sprar di Torrioni ed esordì nel suo intervento con parole che ho ancora impresse nella mente.

“Io sono contento di quello che sta avvenendo qua. Sono contento dei giovani che ci sono e che si discuta del futuro, ma non sono d’accordo. Non sono d’accordo sul fatto che a parlare delle questioni che riguardano noi migranti ci siano tutti bianchi che decidono e due stranieri. Se avete bisogno di sapere di cosa abbiamo bisogno, chiedeteci”.

Con una semplicità disarmante e in poche parole, Dimitri ci fece capire che è fondamentale la prospettiva dalla quale si osservano i fatti e che, come scritto da Sayad e tanti altri studiosi con uno sguardo eretico rispetto alla tematica, siamo abituati a vedere il fenomeno migratorio mettendo al centro la visione occidentale e tutte le sue storture derivanti da un passato e presente da colonizzatori. Il suo intevento mi ha fatto molto riflettere nel tempo, oltre che farmi porre una domanda a cui in parte credo di aver già trovato una risposta.

In fondo chi è il migrante nella visione occidentale se non il soggetto da gestire perché pericoloso, da inglobare acriticamente in nome di interessi altri e incatenare attraverso leggi ingiuste che ledono la dignità e creano marginalità?

Criminali; stupratori; terroristi; soggetti da limitare nella “diffusione”; uomini e donne da includere nell’interesse economico ed escludere rispetto al campo dei diritti; eterni bambini da infantilizzare nel sistema d’accoglienza e “poverelli” da accogliere e aiutare; i vù cumprà, quelli che vendono in maniera illegale, che tolgono il lavoro agli italiani; “ciucci da soma da spompare” nei campi a paghe misere e senza nessuna tutela; quelli che “si, ma aiutamoli a casa loro” o “la loro cultura non va bene nel nostro paese. Devono seguire le nostre regole”; prostitute, ruba mariti, rovina famiglie.

Tanti aggettivi e modi di dire che ho elencato (e potrei aggiungerne altri) che danno una dimensione di cosa significhi attraversare la tematica delle migrazioni a partire da un punto di vista predefinito e senza mai porre domande a chi vive l’emigrazione e l’immigrazione (due fenomeni assolutamente complementari e che non possono essere letti in maniera separata ad uso e consumo da parte di chi detiene il potere economico e politico).

Parole e concetti che pongono la necessità di una narrazione alternativa che non si fermi al semplice proferire, ma punti alla costruzione di “coscienze e comunità meticce” nelle quali ci sono un continuo scambio e una evidente commistione tra persone diverse per vissuto, cultura, etnia, religione, esperienze di vita.

Da qui nasce “Meticcia”.

“Meticcia” è uno strumento per una narrazione altra da quella dominante. “Meticcia” è il megafono di chi viene quotidianamente silenziato. “Meticcia” vuole essere una rubrica con l’obiettivo di attraversare la tematica delle migrazioni grazie alle parole, ai pensieri, alle azioni, ai corpi, ai bisogni e sogni di chi migra. “Meticcia” non è semplicemente la rubrica di una persona, ma un percorso che non può che essere collettivo e in continuo divenire.

Mi chiamo Gerardo Ragosa, sono un attivista salernitano e questa volta mi limiterò ad ascolterò. O almeno ci proverò.