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martedì, Ottobre 15, 2024

Malattie rare, in Ue a rischio disponibilità trattamento per colangite biliare primitiva

BENESSERE E SALUTESALUTEMalattie rare, in Ue a rischio disponibilità trattamento per colangite biliare primitiva

(Adnkronos) – Rischia di non essere più disponibile per i pazienti in tutta Europa l’acido obeticolico, usato da anni per controllare la progressione della colangite biliare primitiva (Cbp), una rara malattia del fegato che colpisce soprattutto le donne. Lo scorso 3 settembre, infatti, la Commissione europea ne ha revocato l’autorizzazione all’immissione in commercio (Aic) condizionata, ratificando la raccomandazione del Comitato per i medicinali per uso umano (Chmp) dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema). Tale raccomandazione – si legge in una nota – non riguarda aspetti di sicurezza, ma si basa, in gran parte, sulla valutazione del rapporto rischio/beneficio complessivo su un singolo studio (Cobalt) randomizzato controllato con placebo, che ha molteplici limitazioni e non tiene in adeguata considerazione una grande quantità di evidenze raccolte nella pratica clinica (Real World Evidence, Rwe) e il consenso degli esperti.  

Il 5 settembre la Corte di Giustizia europea ha sospeso temporaneamente la decisione della Ce. Fino a nuovo avviso, quindi, il farmaco potrà continuare a essere prescritto a nuovi pazienti e a chi ne faceva già uso in regime di rimborsabilità che, solo in Italia, interessa 1.400 persone seguite in oltre 150 centri di epatologia. Se nel prossimo futuro la decisione della Ce dovesse essere confermata, il farmaco potrebbe non essere più accessibile non solo per i nuovi pazienti, ma anche per quelli già in trattamento. La prospettiva preoccupa i pazienti con Cbp che chiedono di utilizzare questo periodo di sospensione per trovare una soluzione che tuteli almeno la continuità terapeutica per i pazienti che traggono benefici dal trattamento. Di questo si è discusso questa mattina a Roma – a ridosso della Giornata mondiale di sensibilizzazione Cbp, che si è celebrata l’8 settembre – in un incontro con la stampa organizzato da Omar, Osservatorio malattie rare, in collaborazione con Amaf Aps Ets – Associazione malattie autoimmuni del fegato e Associazione EpaC Ets e con il contributo non condizionante di Advanz Pharma. 

L’acido obeticolico è autorizzato in Italia dal 2017, come unica opzione terapeutica di seconda linea per i pazienti che non hanno un adeguato controllo della malattia con la prima linea a base di acido ursodesossicolico. Inoltre, è stato utilizzato con successo in pratica clinica per 7 anni e sono stati raccolti dati post-marketing relativi alla sicurezza di più di 40 mila pazienti/anno, confermando un profilo di sicurezza ben definito. Al momento non esiste un’alternativa di seconda linea e, se fossero disponibili, agirebbero con meccanismi d’azione diversi dall’acido obeticolico. Nessuno studio è stato fatto sugli effetti e la responsiveness dei pazienti in trattamento con acido obeticolico nel caso di switch. 

“La colangite biliare primitiva è una malattia rara, autoimmune grave e progressiva del fegato che colpisce prevalentemente le donne con un rapporto femmine-maschi di 9 a 1 e provoca una patologia cronica del fegato con possibilità di andare verso la cirrosi e il trapianto di fegato – spiega Annarosa Floreani, studiosa senior all’Università di Padova e Consulente scientifico all’Irccs di Negrar, Verona – Se non si trova subito una soluzione, il rischio è di tornare indietro di oltre 7 anni. Altri trattamenti sono in fase di sviluppo, ma attualmente non sono ancora disponibili per i pazienti e non sono dimostrati nella pratica clinica. Inoltre, hanno meccanismi d’azione diversi e non sono quindi intercambiabili con l’acido obeticolico”. 

Una delle possibili soluzioni discusse, già emersa da due interrogazioni parlamentari presentate dai senatori Elisa Pirro e Ignazio Zullo, membri della Commissione X Affari sociali, Sanità, Lavoro pubblico e privato, Previdenza sociale”, depositate l’8 agosto scorso, è quella di applicare l’art. 117.3 della Direttiva 2001/83 Ce, recepito in Italia dall’art. 43 del Decreto del ministero della Salute del 30 aprile 2015. “La norma, che fino ad oggi non è mai stata applicata – chiarisce la senatrice Pirro – prevede che, in caso di revoca dell’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco, le autorità nazionali competenti possano, in circostanze eccezionali, continuare a consentirne la fornitura ai pazienti già in cura. Sembrerebbe proprio applicabile per questa situazione e mi auguro che possa essere presa in considerazione”. Aggiunge il senatore Zullo: “Applicare l’art. 117 sarebbe auspicabile, anche considerando il fatto che la revoca non ha riguardato motivi di sicurezza del farmaco e che per queste persone ad oggi non c’è alternativa. Sono a disposizione per supportare la comunità Cbp nel portare questa soluzione, o eventuali altre, all’attenzione delle istituzioni”. 

Il presidente dell’Associazione malattie autoimmuni del fegato (Amaf), Davide Salvioni, chiede che “siano tutelate tutte quelle persone che ad oggi sono in trattamento con l’acido obeticolico e ne traggono un beneficio, almeno fino a quando non saranno disponibili nuove terapie”. Secondo Ivan Gardini, presidente dell’Associazione EpaC Ets, “questo caso presenta diverse anomalie: negli Stati Uniti è regolarmente in commercio ed Ema da una parte ne raccomanda il ritiro, ma nello stesso tempo” lo garantisce per la continuità di cura in che ne fa uso “attraverso programmi di uso compassionevole. Inoltre, non viene presa nella dovuta considerazione l’opinione dei pazienti. Mi aspetto che l’Agenzia italiana del farmaco decida di eseguire ulteriori approfondimenti in maniera autonoma, ascoltando la comunità scientifica italiana e le associazioni di pazienti prima di eseguire un eventuale provvedimento di interruzione terapeutica”. Si tratta del secondo caso, in pochi mesi, di ritiro dal commercio di un farmaco per malattie rare a seguito di revisione dell’approvazione condizionata e di successiva sospensione della decisione.  

“E’ chiaro e normale che i pazienti siano molto preoccupati – commenta Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore di Omar – Nonostante gli studi randomizzati, in doppio cieco, controllati con placebo siano considerati il gold standard della ricerca clinica, essi possono essere difficili da condurre nelle malattie rare, soprattutto quando ciò avviene dopo l’autorizzazione all’immissione in commercio e la disponibilità del prodotto, come nel caso dello studio Cobalt. Per una questione etica sarebbe auspicabile una maggiore considerazione dei dati di Real World Evidence, che in questo caso ci sono (studio Recapitulate)”.  

A tale proposito Vincenza Calvaruso, segretario nazionale Associazione italiana per lo studio del fegato (Aisf), osserva che “il Chmp sembra non aver preso in considerazione i dati dello studio Recapitulate, i cui primi dati sono stati pubblicati nel marzo 2023 e ulteriori risultati sono stati presentati al congresso internazionale dell’Easl (European Association for the Study of the Liver) nel giugno 2024. I dati italiani raccolti dal 2018 su 759 pazienti trattati con l’acido obeticolico in 66 centri hanno dimostrato un beneficio clinico del farmaco nel ridurre la progressione della malattia e lo sviluppo di danni epatici irreversibili”. I risultati dello studio Cobalt “non possono essere interpretati correttamente – sottolinea Pietro Invernizzi, direttore Uoc Gastroenterologia e Centro malattie autoimmuni del fegato (Maf), Fondazione Irccs San Gerardo dei Tintori di Monza – Per farlo sarebbe stato necessario prendere in considerazione anche gli studi di supporto e i dati di Real World Evidence. Inoltre, lo studio Cobalt è stato progettato con un braccio placebo quando il farmaco era già disponibile come parte della cura clinica di routine, un aspetto che ha avuto un ruolo determinante nel fallimento dello studio stesso. L’intera comunità scientifica internazionale è dunque concorde nel chiedere alle autorità europee e nazionali di tutelare le persone che sono già in trattamento con acido obeticolico garantendo loro continuità terapeutica”. 

“Le terapie fino ad oggi disponibili hanno permesso anche ai pazienti che non rispondevano alla prima linea di trattamento di tenere sotto controllo i parametri di fosfatasi alcalina e di bilirubina – rimarca Umberto Vespasiani-Gentilucci, professore associato di Medicina interna presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, dottore di ricerca in Epatologia sperimentale e clinica – Per dimostrare l’impatto di questi effetti” si dovrebbero considerare i dati “dello studio Recapitulate che evidenzia un miglioramento del 60% nella sopravvivenza libera da trapianto epatico e nella riduzione degli eventi fegato-relati per i pazienti in terapia con Oca, mentre una ulteriore sotto-analisi dimostra una riduzione significativa della rigidità epatica nel tempo, un indicatore chiave – conclude – della progressione fibrotica della malattia”. 

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